Cesare Battisti si dichiara colpevole degli omicidi per cui è stato condannato (2024)

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Enrico Mentana
2 h ·

L'articolo che più grida vendetta, oggi che sappiamo della confessione di Cesare Battisti, è l'intervista complice (non trovo parola più calzante) che gli fece nel carcere brasiliano Bernard Henry Levy, nel maggio 2007. Eccola:

BRASILIA (Brasile) — È dimagrito. Ha i capelli cortissimi. Un pizzo che gli allunga il viso. E gli occhi, quella mattina, che mi sembrano straordinariamente brillanti, quasi allegri. La conversazione non è facile visto che, in questa prigione di alta sicurezza della periferia di Brasilia, siamo separati da un vetro blindato e obbligati a parlarci attraverso una sorta di telefono e che gli altri visitatori procedono allo stesso modo con gli altri detenuti e il tutto provoca un terribile fracasso.

Gli pongo, senza indugi, la domanda che mi brucia le labbra fin dalla mia partenza da Parigi: è stato detto che, al momento del suo arresto, fosse pedinato da parecchi mesi dalle polizie brasiliana e, probabilmente, francese. È vero? «Sì. Da un anno, credo. Affittavo un appartamento e loro affittavano l'appartamento di sopra. Andavo al ristorante e loro avevano prenotato il tavolo accanto al mio. Andavo in bagno e li vedevo, sospesi in un'imbracatura, che si dondolavano nel vuoto davanti alla mia finestra. Cambiavo città, Stato, facevo migliaia di chilometri in questo Paese quindici volte più grande della Francia ed ogni volta erano lì; ogni volta li ritrovavo; talora si accontentavano di seguirmi, di sfidarmi, di osservarmi da lontano; talora venivano, in piena notte, a suonare o a bussare alla mia porta e, quando andavo ad aprire, naturalmente non c'era nessuno... Dopo un po' c'è da impazzire. Ti chiedi se non stai sognando; se non sei tu che li stai pedinando; se non sei diventato completamente paranoico e, in effetti, un po' lo diventi».

Fino a...? «Fino a quella famosa mattina, appena prima delle vostre elezioni, quando si è deciso di vendermi a Berlusconi. Quei tipi, allora, hanno ricevuto l'ordine di intervenire. Mi hanno avvicinato. Cortesem*nte. Senza storie. Allora, Cesare, andiamo? Andiamo, ho risposto. Ci dispiace per le manette, hanno aggiunto, ma è il regolamento. Non c'è problema — ho replicato — comunque, vi aspettavo. Ecco. Era finita. Non avevo sognato del tutto». Racconta la sua storia con un sorriso, senza particolare emozione, un po' come in certi romanzi — i suoi — quando giunge il momento in cui la vita del fuggiasco, la preoccupazione di nascondersi, l'obbligo di stare in guardia, di mentire, di pensare a non tradire mai la propria falsa identità divengono letteralmente insostenibili e l'arresto sembra, all'improvviso, e in paragone, una forma di sollievo.

Cambio argomento. Com'è una prigione brasiliana? «Può andare. Il vero problema sono la dimensione delle celle e il sovraffollamento. Quindici metri quadrati per, in questo momento, sette detenuti. Siamo obbligati a incollare i materassi gli uni contro gli altri». Che genere di detenuti? «Giovani. Per solito, ero sempre il più giovane. Ora no. Sono il più vecchio. Una sorta di anziano. Considerato e rispettato come tale». Ride. Con un sorriso che, invece, lo fa sembrare infantile. Ma cosa mi può dire ancora? Sono piuttosto prigionieri di diritto comune? O politici? «Sono prigionieri federali. Qui siamo in una prigione federale. Dunque, si tratta piuttosto di pezzi grossi della criminalità. Con questo dettaglio assurdo: sono piccoli delinquenti, talvolta barboni, che vanno nei cantieri, sui pali telefonici, nelle stazioni, nelle installazioni elettriche a rubare i fili di rame. Poiché in Brasile il rame è considerato proprietà dello Stato, ecco che si trovano nelle prigioni federali...».

Cerco di scherzare su «L'acquisto dell'Ottone», la commedia di Bertold Brecht che una volta leggevano i giovani marxisti-leninisti, e riprendo la conversazione sulle sue attuali letture. Riesce a leggere, in queste condizioni? E cosa legge? «Oh sì! — ride di nuovo —. Non sono capace che di questo, come dice Beckett. Inoltre, non ho nient'altro da fare. Il problema è che per regolamento ho diritto a un libro a settimana e io leggo velocemente. Dica quindi alla nostra amica Fred Vargas di mandarmi libri grossi, spessi, tipo Pléiade, carta bibbia. La settimana scorsa ho avuto tutto Kafka, tranne "Il castello". E questa settimana le opere complete di Dostoevskij nella nuova traduzione, geniale, di André Markowicz. La conosce?».

Poi, senza aspettare la mia risposta e con un lampo di inquietudine — il primo — nello sguardo: «Ma aspetti. Il suo permesso di visita è soltanto di un'ora. E ho tante cosa da dirle. Innanzitutto questo, se può prendere nota e trasmettere a Fred e a Tatiana, la giovane visitatrice che fa da tramite fra il mio avvocato e me». Mi mostra, attraverso il vetro, un foglio da scolaro dove ha fatto la lista, in portoghese, delle sue piccole necessità: sapone in polvere, accendino, francobolli e buste, una biro intera, poiché è abitudine della Casa «disossare» le penne per lasciare solo il refill senza involucro né cappuccio di plastica. Come scrivere in simili condizioni? Poi, un altro foglio con il nome di Angelo Gioia, il «Delegado», in italiano diremmo il «carceriere capo», con il quale bisognerebbe entrare in contatto perché sembra che lui solo sia capace di prendere una decisione che cambierebbe tutto: dargli la possibilità di accedere, almeno qualche ora al giorno, ad un'altra cella chiamata «la Scuola», che è più grande, più luminosa e con l'immenso vantaggio di avere un tavolo.

«Infatti — prosegue — c'è l'essenziale: il romanzodi cui sto terminando l'ultimo capitolo e che, stavolta, scrivo in francese...». Si rende conto della mia aria sorpresa. «Sì. Fin dall'istante in cui ho messo piede in questo Paese, è accaduta una cosa molto bizzarra, addirittura straordinaria. Penso sempre all'Italia, è naturale. Penso alle vittime, per esempio, dei gruppi terroristici in Italia. Ed è la prima volta che ci penso veramente, profondamente, non solo per discolparmi, per dire e ripetere che non ho ucciso, per provarlo. Ma scrivere in italiano, no, non ci riesco più; è più forte di me; è come se una porta si fosse chiusa; è la ragione per la quale mi sono messo a scrivere in francese. Insomma. Questo per dire che finisco il libro qui, ma che l'inizio è nel mio computer e che il mio computer è rimasto nel mio ultimo appartamento, probabilmente requisito dalla polizia. La mia domanda è: pensa che ci sia un modo per recuperarlo?». Forse, dico. Forse c'è una soluzione.

L'altro giorno ho incontrato il nuovo ministro brasiliano della Giustizia e... «Il ministro in persona? Tarso Genro?». A mia volta, sono sorpreso per la sua aria sorpresa. Visto che il contenuto dell'incontro, per volere del ministro stesso che ha tenuto a convocare la stampa, è riportato su tutti i grandi giornali del Paese, dobbiamo immaginare che il detenuto ha diritto a Dostoevskij ma non ai giornali. Sì, Genro. Ero a Porto Alegre, la sua città, per una conferenza sull'America. E ho approfittato della circostanza per chiedergli un appuntamento e dirgli quello che dico, dappertutto, fin dall'inizio della sua vicenda.

Cioè che il terrorismo è, per me, il male assolutoe che, naturalmente, non ha scuse, mai. Ma che l'ipotesi della sua innocenza mi sembra essere un'ipotesi più che seria. Ed estradarla verso un Paese, l'Italia, che non giudica di nuovo i condannati per contumacia, equivarrebbe ad inviarla, senza un vero processo e basandosi solo sulle accuse del pentito Pietro Mutti, alla casella prigione a vita... «E allora?». Sento una tale attesa in questo «e allora» che stavolta esito a rispondergli. Allora, non so. Mi è sembrato attento. Amichevole. A momenti, quasi incoraggiante, quando mi citava il caso dei colombiani delle Farc che, diversamente da lei, sono assassini e che la Corte suprema ha deciso di non estradare. Tanto più... «Sì?». Tanto più che i brasiliani sono persone serie che non scherzano con la legge e che, secondo le mie informazioni, non hanno apprezzato molto la maniera in cui Roma ha cercato di raggirarli.

Sa che il ministro italiano della Giustizia,sapendo che il Brasile ha soppresso dal suo diritto penale la pena del carcere a vita e rischiava dunque, fosse solo per questa ragione, di rifiutare l'estradizione, ha creduto di fare il furbo scrivendo e poi telefonando al suo omologo brasiliano per dirgli: «Non si preoccupi; non farà il carcere a vita; arrangeremo la sua condanna e, certo, uscirà dal carcere fra qualche anno»? Intanto, si vantava sulla stampa del suo Paese — rivolgendosi, questa volta, alle famiglie delle vittime e all'opinione pubblica — dichiarando esattamente il contrario: «No, no; non temete; se Battisti sarà estradato, non gli faremo regali; sconterà fino in fondo, cioè fino al suo ultimo respiro, la pena alla quale è stato condannato...». «Sì, d'accordo», mi interrompe, con una punta d'impazienza nella voce e avvicinandosi al vetro blindato come se volesse sussurrarmi all'orecchio quello che ora ha da dirmi. «D'accordo, ho capito. Ma il mio computer? Pensa che gli si possa parlare anche del mio computer?». Cesare Battisti si sta giocando la libertà e, nel senso stretto della parola, la vita. Ma in questo momento è innanzitutto uno scrittore imprigionato.

Bernard-Henri Lévy

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